di Maddalena Libertini
Ultima settimana per vedere la grande retrospettiva del fotografo canadese all’M9 – Museo del ’900 di Mestre.
Gioca sull’assonanza tra i termini Astrazione/Estrazione il titolo scelto dal curatore Marc Mayer, ex direttore della National Gallery of Canada, per la mostra monografica di Edward Burtynsky: due concetti predominanti nel lavoro di oltre quattro decenni incentrato sui paesaggi naturali antropizzati da attività produttive intensive. I luoghi dell’estrazione di combustibili fossili, di minerali, di terre rare, di pietre preziose o da taglio sono uno dei soggetti più ricorrenti delle immagini di Burtynsky, ma il primo impatto con le sue foto, soprattutto quelle realizzate dal 2016 in poi con l’uso di droni, è la componente estetica che fa emergere forme geometriche, campiture di colori, composizioni di linee curve e rette, contrasti cromatici prima ancora che ci si interroghi su cosa si sta guardando. Nell’intenzionalità di attivare il potere di questa seduzione visiva da parte di Burtynsky c’è il riconoscimento dell’ambiguità intrinseca al rapporto tra uomo e pianeta: come in una favola di Esopo, l’umanità non può fare a meno di progredire e produrre consumando le risorse naturali ma in questo atto di distruzione (e autodistruzione) a volte è possibile intravedere una sconcertante bellezza.
Nell’allestimento dello studio Alvisi Kirimoto è ben evidente un altro connotato dell’approccio di Burtynsky: la grande dimensione che è l’imprinting delle sue inquadrature ed è stata mantenuta nella stampa. 80 fotografie di grande formato e 10 murales ad alta definizione popolano i 1200 mq dello spazio espositivo che diventa una sorta di foresta visuale in cui inoltrarsi. In alcuni casi l’effetto di appiattimento o l’estremo ingrandimento di riprese da grandi altezze genera nell’osservatore spaesamento, perdita di riferimenti o di scala che richiedono un ulteriore tempo di messa a fuoco mentale, oltre che sensoriale, di ciò che si sta vedendo. Ne sono esempi sono le immagini della stazione geotermica a Sonora in Messico, del lago di scarico della miniera di diamanti di Wesselton in Sud Africa, del fiume Thjorsá in Islanda tramutate in superfici pittoriche che rimandano a riferimenti artistici, parte dell’ispirazione di Burtynsky sin dall’inizio della sua carriera. L’altra costante è trovarsi di fronte a paesaggi in cui l’uomo è presente attraverso l’intrico di segni che la sua azione genera massicciamente e non, invece, come presenza fisica. In tutta la mostra sono poche le foto in cui ci sono esseri umani e sono ricondotti a macchie di colore o elementi seriali che si ripetono ritmicamente come quelli inanimati. L’altro intervento umano è quello del fotografo che dall’altro lato dell’obiettivo registra la realtà solo parzialmente in maniera documentale, la sua è una presenza/assenza che si manifesta in maniera fortissima in ciò che sceglie di rappresentare e nel come.
Burtynsky è anche un tecnico che nel 1985 ha fondato la Toronto Image Works, centro di servizi di stampa orientato anche all’imagining digitale e ai nuovi media. Una sezione nel percorso espositivo è rivolta a illustrare i suoi procedimenti e come abbia sfruttato in questi decenni l’avanzamento tecnologico del settore. È interessante seguire come, partendo dal territorio nordamericano all’inizio degli anni ottanta del Novecento, la sua ricerca abbia raggiunto un’ampiezza planetaria che lo ha portato ovunque, dalla Cina al Cile, al Ghana, alla Russia seguendo con coerenza le tracce di mega infrastrutture, ampi impianti produttivi, grandi industrie manufatturiere, immense discariche. Gli scarti e i rifiuti sono un altro tema che compare nella mostra con una sezione dedicata che ne affronta l’impressionante accumulo o lo smaltimento come nella foto della serie Shipbreaking che assume i toni del dramma epico nel ritrarre lo smaltimento delle petroliere in un cantiere navale in Bangladesh. Ritorna però in modo più sfuggente anche in altri momenti dell’esposizione nel fascino pericoloso dei toni metallizzati, fluorescenti o ipersaturi degli sterili, i residui dell’attività mineraria spesso tossici e dannosi per l’ambiente. Alla stratificazione tra naturale e artificiale, nel senso di antropico, si aggiunge l’artificio della fotografia, inteso come maestria dell’autore nel saper mettere a disposizione in una forma espressiva la complessità della realtà. È anche in questo senso che fin dai primi anni Burtynsky ha cercato un punto di osservazione non troppo ravvicinato, predilige la sopraelevazione che gli permette di inquadrare un campo più vasto e che ottiene nel tempo sperimentando modalità e stratagemmi diversi. Se negli ultimi anni l’impiego di droni gli consente di raggiungere alte quote mantenendo un forte controllo e una orizzontalità che spesso annulla la linea dell’orizzonte a favore di tessiture grafiche, in passato le riprese aeree dall’elicottero erano più vicine a prospettive a volo d’uccello ma richiedevano l’invenzione di appositi stabilizzatori. Per la serie dedicata all’irrigazione circolare del 2011-2012 ha scattato diverse porzioni di terreno da un foro nel pavimento di un Cessna ad ala fissa che volava in linea retta ricomponendo il totale in post produzione. A terra ha usato semplici scale, elevatori, ascensori a forbice, veicoli a benna pneumatica e soprattutto nella serie dedicata alle cave di pietra resta impresso il senso di vertigine di certe posizioni azzardate e precarie. Anche il punto di vista fenomenologico di Burtynsky è evoluto nel corso del tempo da una posizione più neutrale a una più impegnata rispetto agli impatti ecologici e sociali. Il pollificio in Cina fotografato nel 2005 e la fabbrica di scarpe in Etiopia del 2018 parlano di uno stesso sistema di produzione basato su migliaia di operai ma l’impianto di assemblaggio della BMW in Sudafrica operato da bracci automatizzati sembra il presagio di un futuro ancora da decifrare. In generale gli scatti di Burtynsky sembrano dichiarare che per mantenere 7 miliardi di persone sulla Terra quello che facciamo non ha e non può avere una scala individuale e allo stesso tempo pongono di fronte all’urgenza di interrogarsi su una alternativa sostenibile.
Del progetto espositivo fanno parte anche nove fotografie della campagna fotografica sugli effetti della Xylella in Puglia commissionata a Burtynsky nel 2022 dalla Fondazione Sylva e la proiezione immersiva nella Sala M9 Orizzonti del cortometraggio In the Wake of Progress (2022), coprodotto da Burtynsky da produttore musicale Bob Ezrin con le musiche originali di Phil Strong.
Approdata a Mestre dopo il successo ottenuto al debutto alla Saatchi Gallery di Londra, Burtynsky: Extraction/Abstraction è la più grande mostra mai realizzata sul corpus dell’intera carriera del fotografo canadese che ha apprezzato la scelta del museo di Fondazione di Venezia.
“Dopo la prima tappa a Londra, l’impegno di M9 – Museo del ’900 nell’esplorare le questioni contemporanee attraverso esperienze innovative fornisce lo sfondo ideale per esaltare il mio lavoro. Con la sua attenzione alle odierne sfide sociali, è un luogo perfetto per accogliere le mie opere e offre uno spazio emozionante in cui riflettere sulle conseguenze ecologiche dell’industrializzazione e sulla complessa interazione tra progresso umano e gestione dell’ambiente”, ha dichiarato Edward Burtynsky.
La mostra vede, tra gli altri, il sostegno di Intesa Sanpaolo.