La contemplazione dell’eternità di Mimmo Jodice

La contemplazione dell’eternità di Mimmo Jodice

22 Aprile 2024

Fondazione CR Firenze ospita a Villa Bardini la mostra dedicata a uno dei più grandi maestri italiani della fotografia, un autoracconto attraverso più di 80 opere dal 1964 al 2011 e una conversazione con il regista Mario Martone.

Si aggiunge un nuovo importante capitolo alla mostra “Mimmo Jodice. Senza tempo” nell’edizione fiorentina di Villa Bardini, a cui arriva dalle Gallerie d’Italia di Torino. Si tratta di una sezione dedicata alla scultura di Michelangelo che raccoglie alcuni degli scatti prodotti dal fotografo napoletano per il volume curato dallo storico dell’arte Eugenio Battisti nel 1989. Nel saggio introduttivo al libro, Battisti commentava l’approccio di Jodice alla plastica michelangiolesca paragonando la fotografia a una sorta di metempsicosi, attraverso cui “l’anima” di un’opera assume un altro corpo: a suo parere, Jodice era riuscito a infondere quest’anima nelle sue immagini affidandosi a “una luce che si scontra con la materia, diventando angolata, e sullo sfondo i contorni delle membra si stagliano con le loro linee quasi metalliche e ondulate, in un ritmo insistente, e sempre diverso di figura in figura”. Gli scatti furono esposti solo l’anno successivo a Napoli, a Palazzo Serra di Cassano. Dieci immagini di quella storica campagna fotografica riemergono ora dagli archivi di Jodice a distanza di più di trent’anni, testimoni dell’incontro al di fuori del tempo tra l’artista fiorentino e quello partenopeo. Il bianco e nero e il contrasto delle foto rendono la modellazione dei volumi, i differenti gradi di finitura delle superfici lapidee, le tracce degli strumenti, la convivenza tra levigatezza e ruvidezza insieme all’intensità delle espressioni dei volti e delle tensioni dei corpi delle statue, dimostrando che, senza parole, Jodice aveva fornito la propria lettura critica dell’opera del genio rinascimentale.

Come dice il titolo, l’antologica curata da Roberto Koch e promossa da Fondazione CR Firenze e Intesa Sanpaolo fa affiorare sopra tutto questa dimensione specifica della biografia artistica, ma inevitabilmente anche personale, di Jodice: quella al di fuori del tempo. A novant’anni compiuti (è nato a Napoli nel 1934) e con un’autobiografia pubblicata l’anno scorso, il confronto con il tempo sarebbe più che naturale, ma nel suo caso è un rapporto che parte da lontano e che rappresenta una prerogativa distintiva del suo lavoro. Vedute di Napoli del 1980, a cui è dedicata una sezione della mostra, è uno spartiacque. Qui compare con evidenza il senso “metafisico” che Jodice afferma di portare da questo momento in poi con sé nelle sue indagini sulle città. Nelle immagini di Milano, Boston, Montreal, Roma, le architetture definiscono lo spazio e gli esseri umani sono quasi sempre assenti o anonime sagome: “Il paesaggio urbano è visibile in tutti i suoi particolari, ma è fermo, congelato, non appartiene alla quotidianità”, dice Jodice. Il tempo non è quindi quello cronologico, non scorre, non è un’assenza ma la sua espressione più assoluta, quella dell’eternità. Non a caso Jodice dialoga bene con le rovine o con le statue antiche: come i volti della serie Anamnesi realizzata per la stazione Museo della metropolitana di Napoli, tratti dai mosaici e dalle sculture classiche che trasforma in presenze vive.

Le sue fotografie si astraggono dal contingente e, in questo senso, diventano ‘astrazioni”; pur rappresentando la realtà, si trasfigurano in uno stato irreale o surreale. Anche quando approccia la Natura – altra sezione della mostra – l’effetto è di una suggestione onirica: la vegetazione esuberante di spinose piante di aloe, rampicanti invasivi, ficus dalle enormi protuberanze, rami che si protendono come animati da una volontà propria sembrano popolare la sfera del sogno. La stessa valenza di incontro tra sogno e realtà Jodice attribuisce al mare, caricandola di un richiamo ancestrale, di nuovo di un orizzonte temporale che tiene insieme la civiltà umana dalle origini a oggi: quello che guarda è lo stesso mare “così come lo hanno visto secoli e secoli fa i primi naviganti, lo stesso mare che vedranno gli abitanti della terra in futuro”.

Jodice ha dichiarato di non essere mai stato interessato alla fotografia come riproduzione fedele di ciò che si vede ma di legare il guardare all’immaginare. Da qui deriva anche l’adesione al bianco e nero: “… quando ho cominciato a fotografare, il colore non si usava molto. In seguito avrei potuto adottarlo ma mi si poneva un problema molto importante: la mia è una fotografia di immaginazione che non vuole documentare le cose. Il colore non mi avrebbe aiutato perché descrive, mentre il bianco il nero spinge a supporre le cose a immaginarle”. Jodice rivendica da sempre la creatività del suo lavoro che ha una componente fondamentale in camera oscura: una fase di pari importanza al momento dello scatto. Anche le immagini con un taglio più sociale e civile, escluse da questa narrazione espositiva, non sono uno specchio di quello che era davanti all’obiettivo, ma beneficiano di tecniche e procedimenti della camera oscura per imprimere il sentimento dell’autore. La fotografia diventa pienamente “visione” attraverso la sperimentazione e l’elaborazione e si apre al fare arte. Per questo è bello chiudere il cerchio del tempo e tornare alle foto degli anni sessanta e settanta che sono all’inizio della mostra di Firenze: con tagli, strappi, solarizzazioni, viraggi e paradossi visivi, Jodice testava le possibilità del mezzo fotografico, sfidandone generi e regole, convertendolo da strumento in linguaggio.

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