Entro il 29 settembre alle Gallerie d’Italia a Milano l’occasione di riscoprire uno dei protagonisti del Novecento europeo. Una mostra che vuole imprimere una svolta nella considerazione di un grande pittore ingiustamente dimenticato, ha detto Giovanni Bazoli, presidente emerito di Intesa Sanpaolo.
Si può racchiudere idealmente tra due autoritratti presenti nella mostra antologica a lui dedicata alle Gallerie d’Italia a piazza della Scala la parabola artistica ed esistenziale di Felice Carena (Torino, 1879-Venezia, 1966). Il primo è un olio su tela del 1908 in cui è un giovane uomo dalla carnagione chiarissima e fulvo di barba e capelli che emerge parzialmente da uno sfondo nero di impronta simbolista, solo metà del volto è illuminata ma lo sguardo aggancia lo spettatore. Racconta un artista immerso nel suo tempo, conscio della lezione dei maestri e ricettivo verso gli stimoli che lo circondano, in grado di assimilarli e rielaborarli imprimendogli un senso di pietas verso l’umano che rimarrà la sua cifra, al di là del mutare dello stile. Sono dello stesso periodo La rivolta (1903), Madre (1904), I viandanti (1908-1909), e Cristo (La Deposizione, 1910). In quegli anni passa dalla natale Torino a Roma, dove si trasferisce dopo aver vinto il concorso del Pensionato Artistico Nazionale, e frequenta Giovanni Cena, letterato e filantropo, condividendone l’impegno a favore delle classi più svantaggiate.
L’altro è del 1951, Autoritratto (con l’ombra di Marzia), e qui la pennellata più marcata lo tratteggia come un vecchio canuto e smunto, la pelle ha accenti lividi e verdognoli, lo sguardo dolente è rivolto verso l’alto mentre su di lui incombe un’ombra protettrice o fantasmatica. La Marzia del titolo è la figlia illegittima che gli starà accanto fino all’ultimo, procurandogli l’occorrente per modellare quando la perdita della vista lo allontanerà dalla pittura. Sono gli anni, in cui ritiratosi a Venezia dopo la seconda Guerra Mondiale, concentra la sua produzione, che proseguirà almeno per un’altra decade, verso la natura morta e verso temi sacri e religiosi.
Sono presenti altri autoritratti in mostra ma è tra questi estremi, più caratteriali che cronologici, si che svolgono i diversi passaggi della biografia artistica di Carena che la retrospettiva curata da Luca Massimo Barbero, Virginia Baradel, Luigi Cavallo ed Elena Pontiggia mette in sequenza con oltre 100 opere. Ne emerge un artista che, saldo nella tecnica, non è timoroso di cambiare e sperimentare per restare fedele ai cambiamenti del proprio animo.
Nel periodo romano, per esempio, la tavolozza si accende di colori squillanti che danno densità materica agli oggetti rappresentati. Le tele sembrano contenere, oltre ai richiami fauves, un’energia che appartiene al momento personale che sta vivendo: riconosciuto come uno dei maggiori talenti della sua generazione, partecipa per la prima volta alla Biennale di Venezia nel 1909 e l’anno dopo a Roma ha la sua prima personale. È in contatto con artisti come Balla e Cambellotti, frequenta il salotto dei baroni Ferrero dove incontra Gualfarda, dalla relazione con la quale nasce Marzia e a cui dedica un intenso ritratto nel 1914. Dopo il primo conflitto mondiale nella parentesi ad Anticoli Corrado, borgo nell’entroterra laziale verso l’appennino, le sue cromie sono più terrose e i toni più lirici e pastorali.
L’allestimento alle Gallerie d’Italia disegna nello spazio espositivo un nucleo centrale che accoglie le opere, spesso di grandi dimensioni, degli anni Venti e Trenta. In questo cuore ideale della mostra sono collocate Serenità (1925), La pergola (1928), La scuola (1928), Autoritratto nello studio (1932), Estate (L’amaca, 1933). È la fase della consacrazione professionale: nel 1924 Carena viene nominato per “chiara fama” professore all’Accademia di Belle Arti di Firenze di cui diventa presidente nel 1933. Resta invece isolato da questo gruppo un quadro dello stesso anno, Teatro popolare, e l’accostamento con una tela del 1954 di stesso soggetto lascia intendere che vi si possa riscontrare una anticipazione di quello che verrà dopo. Lo spettacolo rappresentato non sono gli attori sulla scena, è ma quello delle diverse reazioni di un gruppo di spettatori popolani della balconata. Le loro fisionomie allungate si assomigliano come se appartenessero tutti semplicemente alla famiglia umana. L’unica figura femminile del gruppo sembra irradiare una luce propria, quasi estatica. Nell’opera sono assenti preoccupazioni estetiche e decorative o di verismo mimetico a favore di una sensibilità empatica verso l’altro destinata ad amplificarsi nella spiritualità dei lavori degli anni successivi.
Da qui in poi, complici le vicissitudini personali e della guerra, si imprime una frattura denominata dai curatori “La crisi della pittura” che culmina nel trasferimento a Venezia dal 1945. Al pathos espressivo dei ritratti che si affida direttamente alla pennellata di colore per modellare le forme fa da contraltare la placidità imperturbabile delle nature morte. La concitazione di scene bibliche e mitologiche si acquieta nella compostezza delle composizioni di conchiglie, coralli e vasi giustapposti in una atmosfera di luce rarefatta.
L’ultima sezione è dedicata soprattutto alla pittura sacra e alla produzione grafica. I soggetti religiosi delle deposizioni e delle pietà che ricorrono nell’arco della sua carriera sono l’approdo della parte finale della vita caricandosi di accenti sempre più drammatici e cupi. A lato, l’esecuzione rapida e bozzettistica dei disegni gli concede di tanto in tanto sollievo da quel colore che sta prendendo il sopravvento nella sua pittura imprimendole tragicità.
Secondo Luca Massimo Barbero nei sei decenni di creatività artistica di Carena si può trovare un tema ricorrente nel tentativo di “mettere la luce nella pittura e far vivere il quadro di una luce propria. Questa è la sua caratteristica anche quando la luce diventa mistica, diventa tormento, e diventa, negli ultimi anni della sua vita, nella sua vecchiezza, ma non certo pittorica, una sorta di luce buia”.