di Maddalena Libertini
Si chiude il 28 luglio al Mudec di Milano Tatuaggio. Storie dal Mediterraneo, una mostra che ha approfondito il valore storico e culturale di una pratica estremamente popolare, ma che con un innovativo allestimento espositivo propone anche un approccio “sostenibile” e improntato alla circolazione della conoscenza. Ne parliamo con Guido Guerzoni, che l’ha curata insieme a Luisa Gnecchi Ruscone.
L’uomo si tatua dagli albori della civiltà: in tutti i continenti ne sono state rinvenute tracce antichissime, alcune risalenti al V millennio avanti Cristo. Ma come si arriva da quei tatuaggi che erano prevalentemente devozionali, infamanti o taumaturgici alla pratica odierna, estremamente diffusa e in crescita, del tatuaggio contemporaneo? Una pratica che in Italia interessa quasi il 50% della popolazione adulta, ponendoci tra i più tatuati al mondo. Eppure, il primo tattoo shop apre nel nostro paese solo nel 1974 a Milano, quando ancora la professione del tatuatore non esisteva e questa attività era vista con pregiudizio e diffidenza. Invece “oggi tutti (senza significative distinzioni di genere, età, scolarità o reddito) si tatuano di tutto”, si afferma nella mostra Tatuaggio. Storie dal Mediterraneo, che si concluderà tra pochi giorni al Mudec a Milano. E allora è interessante e forse importante cercare di capire la storia, la valenza e l’evoluzione della tradizione millenaria di questa modificazione corporea permanente. E, insieme, viene naturale anche un’altra domanda: come affrontare questo tema in un allestimento espositivo? Ne abbiamo parlato con uno dei due curatori, Guido Guerzoni, coordinatore scientifico dell’Osservatorio ABI Banche per la Cultura, docente di Museum Management alla Bocconi ed esperto di tatuaggio.
“Oggi il tatuaggio – spiega Guerzoni – è una pratica di massa, agita spesso in modo del tutto inconsapevole del fatto che si esegua da quando esiste l’umanità con significati diversi. Siamo partiti da questa constatazione e abbiamo cercato di aggiungere la dimensione culturale, storica e antropologica del tatuaggio in modo rigoroso dal punto di vista della ricerca, ma accattivante e godibile dal punto di vista del racconto. Nel percorso espositivo, infatti, oggetti, strumenti e reperti antichi e moderni sono integrati nella narrazione sviluppata con video istallazioni, materiali audiovisivi e testuali, fotografie e riproduzioni attraversando i secoli per rispondere alle curiosità dei visitatori”.
Tatuaggio. Storie dal Mediterraneo rappresenta anche un caso esemplare di allestimento guidato da principi replicabili e innovativi, primo tra tutti quello della sostenibilità. Come nasce questo approccio?
“Questa mostra rientra in una progettualità speciale di 24Ore Cultura, che ha deciso di adottare un approccio diverso improntato a obiettivi di sostenibilità ambientale e di economia circolare. Per prima cosa è stato affidato un incarico di progettazione per più mostre allo stesso studio, con il vincolo di riutilizzare quanto più possibile gli apparati allestitivi. Questo consente di contenere i costi degli allestimenti, ma soprattutto ridurre, fino quasi ad azzerare, il footprint ecologico dei materiali impiegati. Molto spesso i materiali allestitivi sono di basso costo e, terminata una mostra, finiscono in discarica. In questo caso, vetrine, strutture, luci vengono riutilizzate riducendo i costi di produzione e minimizzando l’impatto ecologico dello smaltimento”.
L’adozione di strutture modulari e che possono essere rimontate consente anche alla mostra di viaggiare?
“Sì, e questo è un tema importante perché è paradossale ma l’Italia è un importatore di mostre. Sembra incredibile ma un paese come il nostro, che ha il 90% delle collezioni inutilizzate, compra mostre all’estero più di quanto riesca a vendere. Questa mostra è una produzione originale che ha riscosso grande interesse all’estero e che è stata immaginata proprio per poter essere riallestita. La sua dimensione è circa 650 mq, che è esattamente lo standard delle mostre temporanee medie europee, ma grazie alle soluzioni modulari si presta con uno sforzo minimo a essere ridotta o ampliata a seconda delle caratteristiche dello spazio a disposizione. Inoltre, quasi l’85% dell’allestimento è stato fatto a partire da file digitali, che è la terza grande novità del formato. Tutti i materiali allestitivi sono materiali leggeri, i file vengono forniti con le specifiche di stampa, tutto è già nato in più lingue per poter essere non solo fruito da un pubblico internazionale, ma per essere più facilmente esportato e riallestito con un costo molto contenuto e competitivo, risultando attrattivo nel mercato internazionale delle mostre itineranti”.
Questa mostra ha anche un’altra importante caratteristica: è basata sulla circolazione della conoscenza.
“È così. Gran parte della selezione delle immagini, dei file audio, delle riproduzioni di libri e dipinti è stata fatta ricercando e utilizzando volutamente materiali che sono stati liberati da musei, biblioteche e archivi internazionali in un formato che si chiama Licenza CC0 (Creative Commons Zero). Esistono circa 900 istituzioni internazionali che, a differenza di quanto sta accadendo in Italia, hanno sposato questa filosofia open access e full reuse, ovvero l’uso completamente gratuito delle riproduzioni digitali ad alta risoluzione a patto che venga semplicemente citata l’istituzione proprietaria. Quello che preme ai musei proprietari degli originali è far conoscere le opere delle loro collezioni. Su questo approccio full reuse purtroppo siamo molto indietro, mentre tutti i musei internazionali, le biblioteche, gli archivi stanno andando in quella direzione. È un peccato perché il risultato finale è che i nuovi testi pubblicati sulla storia dell’arte italiana spesso utilizzano immagini di opere che non sono possedute da musei italiani ma da istituzioni straniere. Nella mostra abbiamo usato quasi 500 file in alta risoluzione di soggetti di alto profilo come il British Museum”.
Nella mostra avete raccontato della famosa mummia della Val Senales, Ötzi, che ha tatuaggi probabilmente ritenuti curativi, dei pellegrini che in Terra Santa si facevano fare tatuaggi ricordo, delle ricerche di Cesare Lombroso che credeva che i criminali avessero una naturale inclinazione per il tatuaggio. Una delle sale più coinvolgenti è quella dedicata ai resoconti di viaggiatori ed esploratori dei “nuovi mondi”, animata grazie all’impiego di tecnologie digitali.
“Per la sala dei viaggiatori abbiamo trovato 35 testi digitalizzati ad alta risoluzione da vari soggetti europei, da Google Books, a Gallica, la versione digitale della Biblioteca nazionale di Francia. Abbiamo fatto la ricerca dei passaggi riguardanti i tatuaggi e li abbiamo tradotti. Abbiamo poi realizzato l’istallazione video con un montaggio di immagini, testi dei libri e grafica e abbiamo aggiunto l’audio della lettura dei brani. Le voci narranti non sono attori che recitano, ma sono ottenute tramite un semplice software di intelligenza artificiale che, a partire da un testo digitalizzato, è in grado di restituire in varie lingue una lettura chiara e pulita ma anche molto coinvolgente. C’è molta ricerca dietro questo progetto e la nostra idea è stata di utilizzare le tecnologie per potenziare l’aspetto narrativo dell’allestimento”.