In occasione di è cultura!, a Palazzo Scarpa a Verona Banco BPM apre al pubblico un percorso espositivo incentrato su un intervento site specific realizzato da Adolf Vallazza per una filiale della banca alla fine degli anni Settanta. Nella mostra, visitabile fino al 7 novembre, anche le fotografie scattate allora da Gianni Berengo Gardin. L’11 ottobre sarà possibile partecipare a un incontro con lo scultore gardenese.
Uno ha appena compiuto 99 anni il 22 settembre, l’altro ne compirà 92 il 10 ottobre, durante la settimana di è cultura!. Sono rispettivamente l’artista altoatesino Adolf Vallazza e il fotografo Gianni Berengo Gardin e sono legati da amicizia e stima reciproca da mezzo secolo. Quando si sfoglia una monografia su Vallazza è difficile, quasi impossibile non imbattersi in una foto in bianco e nero che Berengo Gardin ha fatto a lui, alle sue sculture in legno o ai suoi allestimenti in musei e gallerie nel corso dei decenni.
La materia di Vallazza è il legno, una materia viva di cui egli apprezza le nodosità, le callosità, le venature, le tarlature, il decadimento; quella di Berengo Gardin è la pellicola, una materia sottile, ineffabile, modellata dalla luce e dall’occhio. Entrambe parlano di tempo. I legni di Vallazza, sono spesso vecchi, recuperati da masi e fienili in demolizione, e ne trattengono il vissuto. Il legno non è un materiale che aspira all’eternità come il nobile e monumentale marmo. “Il legno, invece, – scrive Fred Licht, uno dei maggiori commentatori dell’opera di Vallazza – richiede rispetto non solo per ciò che è, ma anche per ciò che è stato. La sua vita precedente, i cui segni restano inesorabilmente visibili nelle sue stesse fibre, il suo colore, le diverse densità, tutto parla della sua precedente esperienza e, cosa altrettanto importante, ne racconta l’evolversi. Perciò mantenere inalterate queste qualità innate, pur riuscendo a piegarle secondo lo stile dell’artista e il suo personale linguaggio, è cosa rara e ammirevole”. E in questo Vallazza è stato ed è un riconosciuto maestro.
Il tempo della fotografia è un concetto diversamente complesso: da una parte coglie un istante, un attimo per natura passeggero, fugace, scandito dal clic della macchina fotografica, così breve da essere misurato in frazioni di secondo, un inafferrabile presente che è meno di una virgola tra un prima e un dopo; dall’altra lo immortala, lo fissa e diventa la memoria di un volto, la testimonianza di un evento, la prova oggettiva della sua esistenza anche quando il ricordo trascolora. Il carico della responsabilità di afferrare quell’attimo e consegnarlo alla storia lo assume il fotografo e Berengo Gardin l’ha interpretato nella sua lunga carriera rifiutando sempre per se stesso l’appellativo di artista. Non si tratta però di una mera documentazione, vedere le opere di Vallazza attraverso gli scatti di Berengo Gardin significa vederle attraverso il suo sguardo acuto e sensibile, capace di cogliere di valenze, dettagli, tessiture, slanci lirici che potrebbero sfuggirci.
L’incontro tra artista e fotografo è avvenuto all’inizio degli anni settanta, mediato dal critico d’arte Giuseppe Marchiori che nel 1974 pubblicò, proprio con le fotografie di Berengo Gardin, la prima monografia “I legni di Vallazza”. In quel momento lo scultore stava raccogliendo i frutti iniziali del suo lavoro: non senza difficoltà dal dopoguerra aveva abbandonato l’artigianato dell’intaglio del legno per intraprendere un percorso pienamente artistico, spostandosi dai manufatti più convenzionali e su commissione verso forme più simboliche e arcaiche, in dialogo con l’arte contemporanea. Negli anni sessanta sperimenta soprattutto sul tema dei “Torsi” ma verso la fine del decennio cominceranno a comparire i primi “Totem” e “Troni”, che diventeranno le sue forme distintive. In una foto del 1974 di Berengo Gardin l’atelier è popolato da figure ancestrali, alcune con costumi tradizionali, altre più astratte, con echi quasi surrealisti – secondo Marchiori affini all’Art Brut –, un Don Chisciotte e i prototipi di alcune sedute-scultura. Al centro dell’immagine la stufa e accanto una catasta di pezzi di legno di cui non è chiara la destinazione, se l’arte o il fuoco. Dietro la stufa, in secondo piano, l’artista non è al lavoro ma a riposo, abbandonato su una sedia, col volto scavato e levigato dal tempo – di “un apostolo gotico”, scriveva nel libro Marchiori – e sembra mimetizzarsi nel suo habitat, confondersi con le sue opere.
Qualche anno dopo, nel 1979, riceverà l’incarico dell’arredamento artistico di una filiale bolognese dell’allora Banco di San Geminiano e San Prospero (oggi parte del gruppo Banco BPM): realizzerà otto bassorilievi per il rivestimento delle basi delle postazioni della consulenza e sei sedie da collocare intorno al tavolo Doge in acciaio e vetro di Carlo Scarpa nel 1968. Nel 1986 la vendita dell’immobile ha reso necessario lo spostamento delle opere in un’altra agenzia, si è persa così la connotazione originaria dell’intervento ma è iniziato un percorso di conservazione, restauro e valorizzazione. Di quel primo allestimento restano, però, le foto scattate da Berengo Gardin.
Non poteva esserci luogo migliore della sede di Banco BPM realizzata a Verona da un altro maestro, Carlo Scarpa, per raccogliere insieme gli oggetti della collezione Banco BPM e le fotografie di Berengo Gardin e ricomporre questo longevo dialogo a due voci. In mostra anche opere della collezione Vallazza tra cui alcuni disegni preparatori, fondamentali per comprendere il suo modus operandi ed essi stessi di notevole valore artistico
Inoltre, giovedì 11 ottobre, alle ore 18, Adolf Vallazza interverrà a un incontro con Carlo Sala (critico d’arte), Ulrich Kostner (curatore Archivio Adolf Vallazza) e Diana Vaccaro (Responsabile Patrimonio Artistico Banco BPM) per ripercorrere i punti salienti della sua lunga vicenda artistica.
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